TOTO' E VICE'
Data luogo e casa di pubblicazione 2003, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore – 2014, Imola, Cue Press editore (soltanto in versione e book).
Linguaggio palermitano, didascalie e nome dei quadri in italiano
Personaggi Totò, Vicé, Maestra (nella versione 2014 indicata come Mastra), ombra, vecchia, ombra 1, 2, 3, Angelina, creatura, fanciullo, fanciulla, mamà, papà, nonna, nonno, vecchio1, 2, 3, 4, ragazzo, topini, Titì, Vincenzina
Versioni altre Totò e Vicé è il risultato dell’assemblaggio di selezioni tratte da più testi, raccolti tra il 1993 e probabilmente scritti non oltre il 1995; di questi, siamo riusciti a risalire ai seguenti titoli attraverso la consultazione dell’archivio nel quale si trovano raccolti come testi a sé: Totò e Vicé, 1993, (presentato alle Orestiadi di Gibellina nello stesso anno), Totò e Vicé e l’angelo delle lanterne, messo in scena in forma distinta dal precedente, presentato con questo titolo sempre a Gibellina nel 1994), Totò e Vicé sono in realtà… due lucciole, 1995, Sono Totò e Vicé due pupi di zucchero, s.d., , mastra e bambina, s.d.
Note Del testo finora sono state pubblicate due edizioni, di cui l’ultima, pur essendo pubblicata postuma, ha ricevuto il benestare dell’autore e presenta riduzioni e variazioni sia nell’esposizione sia nella collocazione di alcune scene. In questa sede, tuttavia, è scelto di analizzare la prima edizione del 2003, la quale sembra riportare con maggiore fedeltà la scrittura dell’autore relativa al periodo di ideazione, mentre la seconda edizione sceglie di semplificare l’impostazione di alcuni quadri, dal punto di vista grafico, dall’uso poetico delle ripetizioni non sempre rispettate e nella trasposizione di alcuni termini (come ad esempio il “pupiddhu” presente nella versione 2003 nell’edizione 2014 perde l’aspirazione dell’acca e diviene pupiddu).
Analisi
Racconta Franco Scaldati che Totò e Vicé furono ideati sulla base di due personaggi realmente esistiti, i quali, durante il dopoguerra, in modo spesso goffo e controverso, intrattenevano la gente tenendo numerosi comizi, mimando fittizie litigate memorabili alla fine delle quali chiedevano un compenso.
Pensati inizialmente durante gli anni Ottanta come brevi siparietti comici da inserire all’interno di altri testi, solo nei primi anni Novanta trovarono una più compiuta forma autonoma.
Suddiviso in sette quadri a loro volta distinte in sezioni nominate, come in molte altre opere dell’autore non è possibile parlare propriamente di fabula, e l’interazione tra i personaggi difficilmente si può ascrivere agli unitari modelli aristotelici. Apparizioni erratiche li descrive Valentini nell’introduzionealla prima edizione; vannu Totò e Vicé; m’ ‘on sannu unni... Le loro sono piccole azioni cristallizzate rivolte per lo più a interrogare se stessi, la propria natura e il mondo circostante, luogo notturno, grotta e cimitero, cielo e terra, inferno e paradiso assieme. Del resto il dispositivo della duplicazione, che amplifichi – usata quindi come rafforzativo – o che invece ponga a contrasto i due termini, è ben visibile tanto nei luoghi quanto nelle tematiche affrontate e nei personaggi. Totò e Vicé sono l’uno complementare all’altro, inscindibili al punto da voler seguire la morte del compagno quando questa accada. In una forma simile potremmo intendere le coppie fanciullo - fanciulla, maestra - bambina, che dialogano costantemente mantenendo un parallelismo tra domanda e risposta, tra gioco e dispetto, tra avvicinamento e lontananza. Anche a livello spaziale sono facilmente individuabili gli estremi cielo - mare o paradiso - inferno, i quali più che essere identificati come opposti, sono luoghi speculari in comunicazione l’uno con l’altro: è possibile raggiungere la luna passando dal mare, tendere una corda che dalla terra faccia suonare le campane in paradiso, mentre nel cielo si trova un giardino illusorio abitato dai demoni. Ci si domanda (senza avere certezza) se il sonno sia morte, o se al contrario la morte non sia che un sonno. In quest’ottica potrebbe esser letta anche la questione sull’identificazione sessuale che sollevano i discorsi dei due protagonisti (soprattutto Vicé) i rarrieri/ si comu ‘na fimmina… : si indossano vestiti femminili, ci si osserva allo specchio e si sembra uomini, o al contrario, indossando abiti maschili si ha l’impressione di essere donna. Del resto ancora più lampante e generale è la questione sull’identità: che si pronunci il nome dell’altro o il proprio nome è sempre per chiedere conferma del proprio esistere. L’essenza è paragonata ad animali, a cose: dal cane muto – il quale, esemplarmente, è colui che guarda gli altri cani abbaiare alla luna – al film in piazza che però è più un lenzuolo su cui proiettare ombre; dai pupi di zucchero – fatti più per esser guardati che per esser mangiati – a lanternine che nella notte s’accendono e si spengono. Ognuna di queste immagini, delicate e potenti, ha in comune l’aspetto della visione, elemento centrale e per nulla semplice da considerare. Hanno a che fare con la visione le sparizioni e apparizioni improvvise, i riferimenti alla cecità, l’attraversamento di infinite stanza vuote, il considerare la finestra come u quatr’i l’universu o l’osservazione di un foglio a quadretti dove non si sa cosa c’è scritto perché non si sa leggere. La parola diventa lacrima, cioè la scrittura si fa immagine, sentimento che non sia solo segno grafico, perché, compiuta, finita, e privata della sua componente orale, essa è morte. Appaiono allora così intimamente correlate anche le sfere della scrittura – e all’autore che è u cretinu c’a penna ‘n’ manu – e del suono. A ntisa so’ [di Vicé] ogni scrusciu è suonu, ogni rumore è suono; si sente il banniare tipico dei venditori ambulanti di quartiere, si fa il verso degli animali (pratica usuale a tanti personaggi scaldatiani), si desidera il tintinnio delle campane, ci si definisce grazie al sentire, più forte perfino dell’atto di vedere poiché si è corpo che po’ mùta ‘n’luci,[…] po’ muta ‘n’vuci. Allora il gioco paronomastico tra luci e vuci sembra riassumere tutto ciò, accettando il dubbio che quel “muta” presente nel verso possa avere a che fare tanto con il cambiamento (letto come verbo), quanto con l’assenza di suono (visto invece come aggettivo). Del resto la presenza o al contrario l’assenza della luce (della luna, ma anche delle lampadine) induce all’attesa, non è la beckettiana tensione che genera il vuoto, essa fornisce l’occasione di visioni ca uman’o munnu ma’/ànn’avutu […] visioni ‘o scur’i /curiusa luci.., anzi è proprio nell’oscurità che si mette in luce la volontà di donare alle anime perdute (prisi) u lustru anticu. Tuttavia, anche la ricerca della luce può esser pericolosa, esperiscono Titì e Vicenzina, corrispettivi femminili di Totò e Vicé: il prezzo da pagare per smettere di stare al buio è la morte dell’altro,condizione impossibile da accettare eppure inevitabile. Anche gli altri personaggi temono la morte, tema centrale di tutta l’opera. Pur di scappare alla solitudine che ne deriverebbe, si escogitano i più disparati tentativi, si cammina lestu perché si teme che si possa raggiunti dalla vecchiaia, oppure, specularmente, si va adagio accussì u tempu ‘un / passa e iu arrestu / sempri picciottu. Morire è una porta chiusa, un quadro nuovo appeso al muro del principe assassino. Si piange disperatamente per l’assenza dell’altro, non è, come per Aspano e Benedetto del Pozzo dei pazzi, un conflitto tra il desiderare la presenza dell’altrui e il proprio benessere (rappresentato dalla gallina contesa): in questo caso si è più che disposti a morire per l’altro. Più che essere condizione reversibile (come avviene in altri testi come Lucio), la morte assume talmente tanta importanza da esser qualcosa di elitario, paradossalmente diviene complicata pratica burocratica come accade a Vicé che, da morto, racconta all’amico di non esser stato accettato perché sprovvisto di certificazione; oppure (in uno slancio critico nei confronti della società indifferente) non c’è luogo per morire, il resto del mondo è troppo impegnato per concedere un posto; allora si può ritornare assieme, è come giocare a nascondino. Molte sono le apparizioni di ombre, la cui inconsistenza corporea sembra lasciare spazio all’eco delle voci che si ripetono; esse popolano tanto gli interni di case, abbandonate da ogni cosa viva o luminosa quanto il cimitero o le stradine illuminate dal vago chiarore della luna. Come gli operai hanno i nomi dei quartieri, i quartieri hanno ciascuno i propri angeli: che si tratti del nano Pupiddhu, che non smise nemmeno da morto di vestire i panni d’angioletto alla processione della madonna, oppure della vecchia venditrice di santini, in grado di procurare grazie a chiunque le avesse fatto l’elemosina. Fatti di cotone impalpabile o di fatata seta, non sappiamo se siano angeli, diavoli, o ‘un signu supr’ /’a cart/ e /nienti?. Ciascuno dei personaggi mette in atto una personale poetica dell’innocenza, che, come sostiene Scaldati stesso, non ha paura di porsi domande, anche le più sciocche, anche se tautologiche, forse soprattutto se “dimenticate” dall’adulto raziocinante e moderno. Figlie di una logica che non fa una piega si potrà certo affermare che il cieco al buio non si accorga di esserlo o che, utilizzando una sineddoche, si possa vedere ogni cosa trasparente a furia di bere acqua; cose usuali come mangiare una gomma, imparare ad andare in bicicletta, sono atti nuovi, che meritano una diversa postura corporea, suoni e atteggiamenti. Osservando il tramonto che araciu cala/ araciu, in questo come altrove, l’uso rafforzativo della ripetizione sembra quasi dettare il tempo della visione, nella notte popolata da falene, libellule, cicale, farfalle, dove operai svitano stelle e i muratori fabbricano case dei santi ciclisti, Bartali e Coppi.
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