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OFELIA E UNA DOLCE PUPA TRA I CUSCINI

Pagine 88

Datazione 1993 (giugno 1994). 

Lingua palermitano, poche parole per verso, strutturato per quadri,

Versioni altre 21 marzo 93: pp. 48, (presentata anche separatamente come Angeli Operaie, in tutto identica a questa prima versione), 1994: pp. 74, aprile 1994: pp. 70, maggio 1994: pp. 73, giugno 1994: pp. 88

 a cui bisogna aggiungere il titolo diverso Angeli Operaie datata 21 marzo 1993, la quale sembra una versione ridotta (52 pagine piuttosto che 88

Personaggi  non segnati, i tempi dei verbi sono sia in 3°singolare, che in 1° singolare

Note Laboratorio Femmine dell’ombra

 

 

Analisi

 

Dagli originali 8 quadri, nell’ultima versione di Ofelia è una dolce pupa tra i cuscini, Scaldati arrivò a ventidue quadri, che si aprono (a differenza delle precedenti versioni) con un’esaltazione affine alla tradizione della Grecia classica, secondo la quale il poeta, colmava la propria cecità con l’ispirazione delle Muse: ‘On muru ‘Celu Scrissiru / ca / Su / i ghita/ L’ali e L’occhi i L’orbu / […] ‘un c’è cu viri e / Sona com’a Iddu / ‘un c’è cu viri e  / Vola com’a Iddu. Ma da quest’oscurità di visione subito si avverte il contrasto con il bagliore in lontananza di un campanile e la descrizione di questo cielo popolato da angeli e da diavoli, pieno di pietre, di ossa, di pensieri e di umani corpi (II e III quadro). Il quarto segue la descrizione, come nelle precedenti versioni, di questo essere dai capelli lucenti come astri, incantevole, vibrante, incarnazione femminile per eccellenza, la cui bellezza incanta lo sguardo, luna nuda vestita solo di nera nuvola, si fa corpo femminile in tutta la sua bellezza tracotante, sensuale, ornata di fiori. Mentre continua l’esaltazione del personaggio si insinuano variazioni, pensieri di fine come la morte, o il ricordo L’umanu muori, u riordu r’Idda […]  jera n’Astru notturnu, ciuri morti, vola n’cielu. In quanto essenza del godimento, essa è incanto e morti, perfettamente consapevole di sé: Ogni So gestu è / u So universu. Non è solo la luna ad illuminare questo non luogo, spesso la luce è quella dei fari di una macchina, in corsa o vast’abissu; davanti a questo fascio appare un vecchio, un altro tipo di angelo, colui il quale ogni Umanu Gestu/ … ogni pinseru/ Versa/ ‘o Celu. È un dolce ricamo, l’incontro e poi l’amplesso tra i due, continuamente corredato da personificazioni di elementi naturali in parti del suo corpo, (come il vento che diventa dito) o al contrario, è lei una collana sul corpo del vecchio, mentre le cosce sono raggi luminosi e i capelli un velo da sposa, finché non scompare l’oscurità e il vecchio non diventa una nuvola di sangue, silenzio e caduta di pietre, costante suono. Ma l’atto sessuale è tanto tenero quanto crudele imposizione di potere, come la madre ormai invecchiata che promette come premio per l’orrido festino u Ciur’ a/ figghia. Eppure la generosità della fanciulla sembra essere infinita, al pari della madonna che accoglie discepoli e fedeli :

cu È St’Ahrma N’Pena/ Ca ‘E Me Cosci Cesca?/… a luci rosa/ .. A sula luci / ca’a me cammara/ Lùci/ … n’Tisi un Duluri/ ‘o Ciuri/… e Chiuiu l’Occhi/ nn’on attimu U capiu/ U So Sguardu Schiusu/ … ‘un n’tisi Autru/ …eCorpu/ … e ahrma ‘O versu/  sacru/ ‘O santu/ ‘O sonnu. 

La confusione fa spazio al terrore, all’osservare con occhio socchiuso figure di spettri, lei, il giglio appena macchiatosi di sangue cercata dal porco, trasforma la scena nel turbinio di  un Quatr’i Bosch . Ma prima di questa, un’altra citazione pittorica è stimolo al testo: il settimo quadro si apre con la citazione al quadro di Millais, versi che ritorneranno più volte nei diversi testi, è la prima volta che si rileva il nome di Ofelia, ritratta qui morta nel fiume, e probabilmente solo in questa situazione (nella quale le immagini sgorgano innanzi tutto a partire dall’osservazione dell’opera pittorica) si può ravvisare qualche più netto riferimento al personaggio shakespeariano. Ofelia è il fiore che non può essere colto, lei che sotto la veste nasconde il sangue, nonostante ciò rimane cristallizzata in questa languida posizione, dolce pupa tra i cuscini. Dal giardino davanti la casa del guardaporta, tra luce di luna e profumi di fiori, tra tende chiuse in cui abitano i ricordi viene evocata la storia dell’amico ucciso per aver rubato uno stereo, al crepuscolo, un ultimo sguardo al cielo alla  cruna i palummi mentre s’incotranu i ziti, in contrappasso ‘a iniziu i cosa / n’Autra cosa muori. Minuziosamente descritto lo spaccato di vita quotidiana nella quale avviene il delitto: lampadine che si accendono, i negozi, vecchi a tavola con uno sguardo perso alla televisione, bambini che giocano; nessuno sembra aver visto il fatto, nel vuoto si perde il suono del revolver accompagnato soltanto dal battito d’ali dei colombi, nell’ultimo istante di vita del ragazzo riverso su un lato del marciapiede.

Nell’abisso al limite della coscienza ci si spinge, in un luogo in cui non si è mai stati: sopra una scala, l’io parlante osserva la porta chiusa, il marmo bianco, il muro sbiancato. Immersa come in un cielo nero ( che è lenzuolo a lutto), è spaventata, tutto è tenebra. Mani agghiaccianti che la toccano, come ciechi che cercano di conoscerne la forma e le consegnano un nuovo lume, che crea ombre danzanti al nudo muro. Si vede una donna, splendente come la luna, paragonata a vari elementi naturali che ne denunciano bellezze e grazia. Che tormento nasconde quest’universo i cui muri son costruiti di calce e vermi? Sangue e lacrime scorrono dagli occhi di questa fanciulla, inondando le scale, finche di nuovo buio, e poi, la porta che si apre, alla cima della scala le cosce aperte di una donna, sesso scoperto come un quadro di Goya. La luce notturna è filtrata dal vetro dei lucernari, c‘un’ama u Lustru o jornu e nsegue/ a Tenebra, ma dopo la notte orgiastica spunta l’alba e ritornano i colori, dalla tenda appena lasciata schiusa (non si sa bene da chi, dice il testo) si intravedono gli angeli svegliarsi e giocare, piangere per aver perso la Stidda Pittidda rubata dai demoni.

In questo testo l’orrore umano è giunto al confine, al precipizio del mondo: è seminato di vermiglie stelle, di corpi senza vita pieni di fango, teste mozzate e budella al di fuori del corpo; le figure alate non più angeliche ma sciacalli. Da questo scenario mortuario c’è ancora vita, pulsione sessuale, corpi di giovani, maschi e femmine, in una tetra festa di morte dove sfilano gli innocenti e si usano termini come lucente, sangue e giglio; ciuri curiusi su ‘o Campu i morti. Animali saprofaghi si aggirano e cala il sole verso terra culminando nelle immagini cruente d’inferno: si fabbricano collanine con il cervello, coi capelli anelli, con i nervi dei piedi bracciali e con le mani orecchini. Ogni brindisi è fatto di sangue, privo di pentimento. Bisogna attraversare quest’orrore (lo stesso dei quadri di Bacon, sembra suggerirci Scaldati) fino nelle sue più oscure profondità prima di poter fare ritorno a casa, osservare, dietro le finestre con le luci accese, le donne che raccontano la propria storia; non è una realtà perfetta, molti sono i vetri rotti, ma ognuna delle donne affacciate continua a raccontare le storie della propria vita, a ricamare le vesti a colori.

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