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IL POZZO DEI PAZZI

Data e luogo di edizione In Il teatro del Sarto, Milano Ubulibri, 1990 

Linguaggio palermitano e italiano didascalie (traduzione in italiano a fronte)

Personaggi Aspano Benedetto, Masino, Pinò, Totò, Giovannino, Matteo

Versioni altre 1974: 41 pp.; 1976: 100 pp, 1975: 34pp, s.d.: pp.69, s.d (in frontespizio segnato come “originale”): pp. 78 – Riprese dello spettacolo 1974, 1976, 1980, 1084, 1990 (Regia Elio De Capitani), 2005

 

 

Analisi

 

Testo nato per gran parte sul palco, nelle improvvisazioni su canovaccio tra Scaldati e Gaspare Cucinella, Il pozzo dei Pazzi rappresenta il primo vero successo dei testi dell’autore palermitano, una sorpresa per il pubblico del Piccolo, praticamente a digiuno di testi dissacranti, abituati al teatro borghese da stabile o all’intrattenimento vernacolare nostalgico. L’operazione compiuta in questo caso riporta l’attenzione su figure a margine che non utilizzano il dialetto come qualcosa di folcloristico né come un’azione programmaticamente politica: i personaggi sono violenti e goffi, dormono tra le macerie, compiono azioni insensate lottando per la propria vita in una guerra tra poveri. In occasione di una ripresa dello spettacolo nel 2005 (quindi con alle spalle molti altri lavori che ponevano al loro centro tanto le figure dei barboni quanto la dinamica della coppia) Scaldati sosteneva che questa fosse:  

«la metafora dell’amicizia tra due barboni  che vivono in assoluta libertà inseguendo solo i loro bisogni primari per sbarcare il lunario; […] (si tratta di uno spettacolo) che non sostiene nessuna tesi, è indefinito e si muove sul sentimento di un universo particolare, filtrato dagli sguardi e dal vissuto dei personaggi che allora avevo estrapolato dalla gente del Borgo Vecchio. […]Era invenzione pura e io forse ero troppo incosciente»,

 

Tutti i personaggi sono estremamente legati alle cose terrene e, per la propria crudele sopravvivenza, – crudele perché senza sconti, senza il filtro della società che i pazzi possono permettersi il lusso di perdere – avvengono gli scontri: la coppia Aspano -  Benedetto cerca di sopravvivere raccogliendo mozziconi di sigaretta – probabilmente le pallimalli dei miricani - , insultandosi, picchiandosi e litigando per il possesso di una gallina rubata. In loro si riflette di rimando una comicità crudele, che parla di fame, che chiama stupido – fuoddi – chi come Benedetto si è lasciato cacciar via dal manicomio, dove almeno avrebbe avuto una tazza di brodo da mangiare. Si ricevono pugni, calci; Totò per la disperazione di aver perso la sua amata gallina (sua controparte) si impicca, Pinò viene pugnalata dall’amato Masino in un raptus di gelosia. È la furbizia, l’essere in grado di generare confusione, che permette di avere la meglio su qualcuno, di ingannarlo. Il turpiloquio, al contrario, sembra quasi sortire effetto opposto, scatena una competizione complice, continuamente al rilancio di una situazione ancora più paradossale. L’ingiuria senza filtri può riguardare tutti: dagli americani, ai fascisti, dai negri al finto buonismo delle cooperative, ma il più delle volte si tratta di sfoghi liberatori, senza un particolare soggetto; la vera violenza va cercata altrove, negli incubi della reclusione forzata dove non ci si può muovere, pena minacce atroci, dove bisogna esser costretti a obbedire senza fiatare e si diventa pazzi a furia di sentirselo ripetere.

E tuttavia come lo stesso Scaldati afferma, pur non negando la componente cruda e violenta dell’opera, si tratta di:

 

«un teatro di poesia, un teatro lirico che partendo da una condizione di precarietà, che partendo dall’oscurità è proteso verso l’illuminazione, verso la luce. Ma io credo che l’altro aspetto sia la comicità che comunque permea sempre, quasi sempre, gli spettacoli che noi facciamo. Comicità che nasce da cose estremamente dure, pesanti. Probabilmente il senso della tragedia attraversa un po’ tutti gli spettacoli nostri come un’operazione di riscatto»

 

Del resto, la morte non è irreversibile: Pinò ritornerà alla vita, cieca, così come si affacceranno mutilati di qualcosa (chi delle braccia, chi delle dita) vari personaggi, mentre Benedetto, pur picchiando Aspano per il possesso della gallina, non riesce a resistere ai suoi lamenti, ai suoi pianti, i quali del resto rappresentano appieno la manifestazione del dissenso che durante quegli anni riempiva gran parte delle attenzioni dei giovani attori. Sembrano riecheggiare i versi di Jannacci-Fo Ho visto un re quando Matteo e Giovannino dicono a Masino: Cuntient’ ‘e iessiri … cuntientu / Ca u Signuri ‘un ni voli viriri siddiati. Ma il pianto è anche manifestazione della paura dell’abbandono, sentimento che fa a gara con la fame e con il senso del possesso: ci si scaccia e allo stesso tempo si prega di rimanere assieme, si invoca il nome dell’altro, perché  la solitudine, l’impossibilità a condividere la propria follia, sarebbe la peggiore condanna da scontare in un mondo che li ha rifiutati. La salvezza, sembrano dirci i personaggi del Pozzo è nel riscoprire assieme con curiosità e con l’innocenza di chi è appena (ri) nato le cose veramente importanti: la musica, il mare, la luna, il cielo e i fiori.

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